Spesso le sorti della Storia sono determinate un refolo di vento in grado di spostare l’ago della bussola del tempo di 180 gradi, da un granellino di sabbia che in un preciso momento diventa decisivo per spostare una montagna in una direzione, o in quella diametralmente opposta: con effetti diametralmente opposti, con conseguenze diametralmente opposte per tutto ciò che viene dopo. Non di rado, questi granellini, questi refoli, sono persone, singoli, individui, uomini e donne, che si trovano ad occupare questa posizione vuoi per l’importanza che riescono ad assumere le loro azioni, le loro idee, vuoi, all’opposto, per l’importanza che per un soffio o per un granello tali idee o tali azioni NON sono riuscite ad assumere sono dei personaggi, che talvolta si guadagnano un posto al sole nei libri di storia ma che per la più parte delle volte rimangono sconosciuti e semisconosciuti. Chiamiamola l’ironia della Storia.
“Fra le centinaia di delegati e le migliaia di consiglieri, segretari e dattilografi che si recarono a Parigi fra il gennaio e il luglio del 1919 (La conferenza di pace di Parigi del 1919 fu una riunione internazionale, che vide i paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale, impegnati nel delineare una nuova situazione geopolitica in Europa e stilare i trattati di pace con le Potenze Centrali uscite sconfitte dalla guerra, n.d.r) c’erano Gertrude, Lawrence e Fayal. Primi Ministri, Ministri degli Esteri, Presidenti, Principi e Re arrivarono in bastimento e in treno. Giunsero, inoltre, i rappresentanti dei popoli che volevano diventare nazioni e delle nazioni che volevano sapere quali fossero i loro confini…”
Figlia di un magnate dell’acciaio di Middlesbourgh (Regno Unito), Gertrude Margaret Lowthian Bell (1868-1926) ha 37 anni quando, in una piovosa e gelida giornata d'inverno, monta a cavallo e con pochi aiutanti e una tenda inizia il suo viaggio. Durante il percorso incontra emiri, pasha, sceicchi, vescovi, rappresentanti del governo ottomano, mulattieri e contadini. Conosce tutte le sette del frammentato scacchiere confessionale del Medio Oriente, spesso in lotta tra loro: musulmani ortodossi ed eterodossi, cristiani, drusi e yazidi. Arriva a Damasco «la vera capitale del deserto» e poi rimane affascinata da Baalbek dove sono in corso gli scavi di una missione archeologica tedesca. «Il vasto insieme di templi e mura di cinta (…) – commenta - è secondo solo a quello dell'Acropoli di Atene per l'impressione che suscita».
Prosegue e arriva a Homs che con le sue facciate decorate le ricorda stranamente «la facciata della cattedrale di Siena». Gli uomini si rivolgono a lei come a ‘Sua Eccellenza’, chiedono che spenda una buona parola per loro a Costantinopoli e le offrono cene grandiose e stanze per la notte perché «la parola ‘ospite’ è sacra dal Giordano all'Eufrate». Sulla strada si imbatte in fortezze cristiane, resti assiri e costruzioni romane. Parla di poesia araba con i suoi ospiti, scatta fotografie, copia iscrizione in caratteri cufici. In circa seicento giorni percorre più di trentamila chilometri e si addentra in luoghi dove una donna occidentale non aveva mai messo piede, in Siria, Mesopotamia, Turchia. Le sue modalità di viaggio sono stravaganti: oltre alla tenda per la notte ne ha un’altra per la vasca da bagno di tela, cavalca dieci ore al giorno - non monta all’amazzone ma si fa confezionare indumenti appositi - e assisa sul cammello con una mano tiene l’ombrello per il sole oppure un libro.
Parla l’arabo alla perfezione, studia fotografia (la School of Historical Study della Newcastle University custodisce settemila suoi scatti), epigrafia e archeologia, desiderosa di scoprire qualche ignorato gioiello del deserto, e lascia una marea di documenti, di rapporti e di dettagliate memorie.
Con gli anni, l’Impero Britannico si rende conto dell’enorme potenzialità data dalle conoscenze sulla Mesopotamia di questa stravagante signora. Siamo ormai verso la fine della prima Guerra Mondiale e l’Impero ottomano si è disgregato, diventando invitante terreno di conquista per le Potenze Alleate. Nel 1916 Gertrude Bell viene nominata da Winston Churchill Segretaria per l’Oriente a Baghdad. La “regina del deserto” si impegna con tutte le sue forze con un gran senso pragmatico e di giustizia; ciò nonostante la storia non le ha reso il merito che le spetta. Della sua opera diplomatica e politica poco nota ci parla Federica Frediani, docente e ricercatrice dell’università della Svizzera Italiana di Lugano. I suoi interessi riguardano la letteratura di viaggio, con particolare attenzione per le viaggiatrici dell’Ottocento e del primo Novecento.
"Il momento più importante della carriera diplomatica di Gertrude Bell è la sua partecipazione come delegata alla conferenza del Cairo del 1921. Il 21 marzo 1921 presso l’Hotel Semiramis del Cairo, infatti, alla presenza di Winston Churchill, allora Ministro delle Colonie, si riuniscono Lawrence d'Arabia e una nutrita schiera di funzionari delle colonie, militari, diplomatici, storici, archeologi, arabisti, cultori di studi islamici europei, soprattutto inglesi. Al tavolo delle trattative sedevano 39 delegati: 38 uomini e 1 sola donna. Durante la conferenza, furono tracciati gli assetti territoriali del Medio Oriente, dopo la prima Guerra Mondiale e la caduta dell’Impero Ottomano. In particolare, furono delineati i confini del nascente stato dell'Iraq e gli accordi per la governance dello stato. Le potenze coloniali decisero a tavolino del futuro dell’area mesopotamica, ignorando per una precisa volontà politica, la complessità e la diversità delle molte tribù che stavano accorpando sotto la guida di Re Faysal. Irrispettoso delle differenze religiose e culturali della popolazione - in parte sciita, in parte sunnita e in parte curda, Churchill riunì infatti tutti sotto la corona di Re Faysal e gli concesse una forma di autonomia che gli consentì ancora di esercitare potere sulla regione. Una strategia in cui sono rintracciabili le radici dei conflitti attuali”.
- In virtù di cosa Gertrude Bell riesce ad avere questo spazio e questo peso in un mondo che è esclusivamente maschile? In cosa si differenzia Gertrude Bell dalle altre viaggiatrici donne inglesi in terra?
“Gertrude Bell non era la sola donna straniera a essere presente a Baghdad. L'aristocrazia britannica, infatti, grazie alle strutture dell’ impero coloniale, si fermava per periodi medio lunghi in quest’area, ma trascorreva il tempo quasi esclusivamente in circoli esclusivi ad essa dedicati, fondati appositamente per garantire la continuità rispetto al modus vivendi in madre patria. Gertrude Bell, invece, era una donna diversa. Nel 1888 fu la prima donna inglese a laurearsi a Oxford, in storia moderna. Parlava fluentemente arabo e persiano e d era interessata all’archeologia. Nei suoi viaggi cercava il contatto con le popolazioni locali. Inoltre, viaggiando spesso in territori allora sconosciuti, Gertrude Bell tracciò carte topografiche, che vennero poi utilizzate dall'esercito inglese per raggiungere Baghdad. Furono proprio queste conoscenze e questi contatti con le diverse tribù locali a consentirle di entrare a far parte di un mondo diplomatico prevalentemente maschile.
- Quale pensa che sia il messaggio che può trasmettere Gertrude Bell alle giovani donne?
“La conoscenza e il sapere i principali strumenti di emancipazione e irrinunciabili per trovare un'adeguata collocazione all'interno della società di allora come in quella di oggi."
Migration compact vs. mal d’Africa. Tradotto: politiche europee più compatte e stringenti sui migranti e, per contro, situazioni sociali e guerriglie che spingono sempre più disperati a lasciare le loro terre d’origine africane per cercare di sopravvivere. Due posizioni contrapposte pur essendo ambedue comprensibili. Come uscirne? Italia e Grecia chiedono con insistenza all’Europa di non essere lasciate sole. La rotta balcanica viene chiusa, Francia e Spagna - quest’ultima, che comunque già se ne sta all’ombra delle grandi rotte migratorie grazie al muro tra Marocco e Algeria - si defilano, e l’Italia se ne resta da sola a reggere il moccolo. Intanto la gente muore nel canale di Sicilia. Maria Serena Alborghetti ci racconta del “Mal d’Africa”…
Inquadriamo il fenomeno riportando alcuni numeri forniti da un report dell’UNHCR (un’Agenzia specializzata delle Nazioni Unite per la protezione dei rifugiati):
Passiamo ora in rassegna qualche chiarimento terminologico:
Infine, uno sguardo alle cause che determinano il flusso migratorio africano diretto in Italia:
Il resto è cronaca di tutti i giorni, in costante divenire. L’Austria che minaccia l’uso dei carri armati al confine del Brennero e l’Italia parla di chiusura dei porti per gli scafi delle ONG (Organizzazioni Non Governative) che non rispettano delle specifiche procedure. A livello di Unione Europea, gli argomenti sul tavolo delle trattative sono una revisione del Trattato di Dublino -in modo che il peso di occuparsi degli immigrati non gravi in toto sul Paese di prima accoglienza- l’aumento degli hot spot, il rafforzamento dei programmi di guardia costiera e di frontiera europea (i vari progetti Frontex e Triton, per intercedi), l’elaborazione di una procedura di rilascio dell’asilo uniforme a livello europeo, in modo da impedire che i flussi dei richiedenti asilo vengano condizionati dalle maggiori o minori difficoltà burocratiche esistenti nei diversi Paesi d’accoglienza.
Ma sono anche allo studio misure meno evidenti all’opinione pubblica per quanto forse ancora più significative, perché denotano un cambio di approccio alla questione dell’immigrazione: misure che vanno oltre a tutto quanto sopra elencato, mirante a far fronte a quello che fino a poco tempo fa veniva considerato un fenomeno eccezionale, in buona parte imponderabile e pertanto da trattare con misure di emergenza, di “corsa ai ripari”; il cambio di approccio va verso la comprensione del fenomeno migratorio come una componente costante, che caratterizzerà gli anni futuri della vita e delle politiche della parte del mondo che si affaccia sul mediterraneo e che, proprio in quest’ottica, per poter essere gestita, deve essere letta e compresa nella sua totalità con politiche proattive. Si parla, allora, di creare canali di migrazione legale - in modo da sottrarre ossigeno al traffico delle tratte e degli scafisti - di accordi di partenariato proprio anche con molto Paesi africani come Niger, Mali, Senegal, Etiopia, in modo da far crescere delle conoscenze e delle capacità in loco che aiutino a stabilizzare la situazione socio-politica di questi Paesi; si parla, anche, di progetti di rimpatrio volontario assistito.
Maria Serena Alborghetti, viaggiatrice, scrittrice, osservatrice ONU-UE in Africa, ci racconta di quello che sta accadendo e di cui noi poco o nulla sappiamo. Ha pubblicato due libri: “Sulle piste d’Africa” e “Riflessi in uno specchio-voci di donne da un paese in guerra”: attraverso la voce e la storia di quattro donne -due europee che lavorano in Africa e due africane impegnate in modo diverso a lottare per il proprio Paese- Maria Serena Alborghetti ripropone quelle che sono state le sue esperienze e la complessità e durezza della situazione africana per chi la vive dal di dentro e dalla quale è spesso costretto a fuggire. A noi dell’Euregio espone un’interessante riflessione, che le politiche immigratorie dovrebbero fare proprie.
“Personalmente sono convinta che l’Europa, con i suoi 500.000.000 di abitanti sia in grado di assorbire anche un numero importante di immigrati, ma mi rendo conto che la realtà è di paura e che quindi rimane difficile se non impossibile, imporre un’accoglienza. Indubbiamente, quello che sta accadendo è qualcosa che non si può fermare con leggi o muri; è un fenomeno epocale che deve essere gestito nel suo insieme. Il che non significa accogliere passivamente tutti coloro che arrivano, tutt’altro: significa trovare il modo di discernere, di filtrare; non significa però neanche violare tout court i diritti umani tentando di bloccare e di respingere tutti senza, peraltro, raggiungere risultati apprezzabili neanche in tal modo. Non sono d’accordo neanche con quanto previsto nel decreto Minniti di in relazione alle ONG (il cosiddetto “codice di condotta” del ministero dell’Interno, un codice di comportamento per le organizzazioni non governative che compiono operazioni di soccorso nel Mediterraneo e che le ONG sono tenute a sottoscrivere per poter continuare a svolgere la loro attività, n.d.r.), serve solo a far morire più gente lavandosene le mani. Una ragione in più per capire che i flussi vanno regolati all’origine; bloccarli una volta in viaggio significa essere responsabili di morti e di situazioni inumane come quelle che accadono in Libia. Così non funziona, serve solo a certi populismi… Se, invece, vogliamo affrontare in maniera seria la questione, dobbiamo fare un passo in dietro e partire dalle cause che inducono queste persone a rischiare la vita per fuggire.
A noi può sembrare incomprensibile che ancora possano attecchire promesse di facile accesso ad un “paese del bengodi” ma, oltrepassata la linea del deserto, inizia veramente un altro mondo: un mondo in cui non filtrano le informazioni. Ed è proprio partendo da questo fondamentale dato di fatto che io imposterei la cosiddetta “politica di immigrazione proattiva”: per chi fugge dovrebbero essere creati canali umanitari gestiti dalle ambasciate nei paesi più vicini a quello da cui si fugge. Inoltre, ritengo che l’intervento più efficiente possa essere quello di creare degli “hot spot” in loco, in cui personale appositamente formati e messo a disposizione dalle agenzie europee assieme a facilitatori-mediatori del, anche loro appositamente formati, possano intercettare e decodificare i bisogni degli abitanti della fetta di territorio di pertinenza; possano così fornire agli “aspiranti migranti” tutte le informazioni necessarie per comprendere le possibili soluzioni a tali loro bisogni; mi spiego meglio: penso ad esempio a progetti di microcredito e di tutoraggio per realizzare piccole attività imprenditoriali in loco così come anche a progetti formativi che forniscano loro le nozioni tecniche per la costituzione di piccole cooperative che- nel caso della realtà africana- spesso coincidono con i componenti della famiglia allargata. Penso anche a percorsi assisiti per entrare a fare parte di progetti e partnership di cooperazione con determinate realtà imprenditoriali europee - un distretto veneto della lavorazione artigianale di mobili in legno potrebbe essere interessato di avvalersi dell'altissimo livello di artigianato e della lavorazione del legno in Mali- e, in ultima analisi, se le vie in loco proposte non sono fossero in grado di dare una risposta soddisfacente al bisogno, ad un affiancamento per l'accesso ad un canale di migrazione legale. Il tutto, previa uniformazione delle procedure di accoglienza e della burocrazia a livello europeo, compresi anche i criteri per un eventuale rimpatrio nel caso in cui, entro un predefinito lasso di tempo dall’ entrata accompagnata del migrante nel paese di accoglienza, quest’ultimo non fosse in grado di compiere quei passaggi che attestano l'avvenuta integrazione. Mi immagino una sorta di “accesso a tempo”. Anche qui mi spiego meglio. Nell’accoglienza “a tempo” dicevo che si possono dare diverse chance, cioè chi non ce l’ha fatta nel periodo concesso a sistemarsi può riprovarci, ad esempio, dopo due anni, mentre se resta illegalmente sul territorio si giocherebbe questa ulteriore possibilità. In questo modo si darebbe un’ulteriore speranza alla persona che non sarebbe incentivata a rimanere.
Tecnicamente e logisticamente non sarebbe poi tanto complesso mettere in piedi una siffatta rete di hot spot: infatti, ovunque sul territorio ci sono uffici- punti logistici delle Nazioni Unite, anche le stesse ambasciate, che potrebbero prestarsi a questo scopo. Finanziariamente questo progetto verrebbe a costare meno di quanto non venga speso oggi per tutte le misure in atto...
Inutile dire che il presente e il futuro dell'Unione Europea si gioca proprio sulla sua capacità di mettere in piedi una politica dell'immigrazione efficace e convincente. Anche a livello locale, i partiti politici si giocheranno la carta della credibilità proprio in rapporto alla loro capacità di relazionarsi con questo tema cruciale.”
Abbiamo detto che i fratelli partono dalla Moldavia, di cui a stento sappiamo dove si trova e ancor’meno sappiamo della sua situazione socio-politica. Di certo non appartiene a uno di quei Paesi di cui sentiamo parlare per tristi episodi con gran frequenza. Cogliamo, allora, l’occasione per fare il punto sulla Moldavia. Dal punto di vista geopolitico la Moldavia è un piccolo stato dell’Europa orientale confinante con Ucraina e Romania che, a differenza della Bulgaria, non fa parte dell’Unione Europea ed è composta da una parte di popolazione moldavo/romena e da una di popolazione russo/ucraina. Dopo la Rivoluzione russa del 1917 e la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli presenti nel territorio russo, una parte della Moldavia storica rivendicò la propria identità nazionale, autoproclamandosi repubblica indipendente di Moldavia il 2 dicembre 1917. Dopo la seconda guerra mondiale venne nuovamente occupata dal governo sovietico, che esercitò sulla popolazione romena atti di pulizia etnica e deportazioni. Solo la politica della glasnost e della perestrojka di Gorbacev creò nuovamente le condizioni di una espressione libera del sentimento nazionale e, nel 1991, dopo la caduta del governo sovietico golpista di Mosca, la nuova dichiarazione di indipendenza.
Strattonata storicamente tra la sfera d’influenza Russa e quella Romena e, pertanto, tra il pensiero filo-europeista e quello anti-europeista, e quindi, tra il suo nome russo “Moldavia” e quello romeno di “Moldova”, la Moldavia di oggi ha visto vincere le elezioni presidenziali del novembre 2016 da Igor Dodon, candidato filo-russo, amico di Vladimir Putin e critico con l’Unione Europea. Ha pesato sull’esito elettorale l’incapacità dei precedenti governi dei partiti europeisti al potere dal 2009 al 2015 di far fronte alla povertà diffusa e lo scandalo di corruzione per il quale fu arrestato a fine 2014 l’allora primo ministro Vlad Filat, scandalo che ha visto sparire circa 18 miliardi di leu (pari a circa 930 milioni di euro) da tre delle banche più grandi e importanti del Paese che conservavano circa un terzo del denaro di tutto il Paese, incluso a quello destinato al pagamento delle pensioni.
E con il denaro, è facile comprendere, sia venuta meno anche la fiducia nel futuro da parte delle giovani generazioni che pertanto, proprio come i fratelli del film, tentano di riagganciarla fuggendo in Europa, dove assieme alla fiducia cercano anche il rispetto dei diritti umani e la libertà di espressione. Intanto, in patria, il neo-Presidente Dodon annuncia di “riportare l’ordine nel suo paese e di difendere i valori tradizionali”, strizzando l’occhio a Putin, e di voler eliminare l’accordo con l’Unione Europea per entrare nell’Unione doganale eurasiatica.
Torniamo ora dai nostri due fratelli del film “Geschwister” e sentiamo cosa ci racconta l’autore e regista Markus Mörth:”A 22 anni sono partito da Graz per frequentare la scuola cinematografica a Monaco di Baviera e a 29 anni, dovendo ancora assolvere il servizio militare, ho optato per il servizio civile presso il centro profughi St. Gabriel a Graz, un centro che ospitava profughi con fragilità psichiche. Poi questo centro é stato chiuso e riaperto altrove; il vicinato si lamentava perché temeva il deprezzamento del quartiere. Comunque fu proprio in quell'anno che raccolsi storie… mi resi tuttavia conto che i profughi, che vivono una sorta di limbo sociale e giuridico fino a quando non riescono a ricevere il diritto di asilo, non amano parlare del loro passato, quel passato che hanno lasciato dietro alle loro spalle quando hanno deciso di partire. Hanno una sorta di timore di parlare dei motivi che il hanno spinti ad intraprendere il loro personale viaggio della speranza, quasi che questi motivi, parlandone, potessero ancora raggiungerli e vanificare i loro sforzi poco prima di vederli coronati. In particolare molte donne provano vergogna per le violenze che hanno subito durante la fuga. Proprio per questo motivo nel film faccio solo vaghi accenni alle motivazioni che hanno spinto i fratelli Bebe e Mikhail a passare il Danubio...
Ma torniamo alla storia narrata in “Geschwister”. Fu concepita nel 2009, anno in cui su incarico della ORF mi sono recato in Moldavia per girare un documentario. In quell'occasione ho avuto modo di attingere a del materiale di Amnesty International, ad alcuni casi realmente accaduti tra i quali anche il caso di giovani Rom che erano stati perseguitati, detenuti e avevano subito violenze proprio a causa della loro appartenenza etnica. Nell'ambito delle mie ricerche, inoltre, ho avuto modo di costatare come le storie di vita famigliare si ripetano: genitori che decidono di affrontare il rischio del viaggio verso l'Europa per poter poi inviare soldi al figlio più vecchio che, sostituendosi a loro, diventa il riferimento genitoriale per i fratelli più piccoli. Altrettanto ho avuto modo di rendermi conto come in Moldavia lo Stato investa nella creazione di una sorta di “mercato del lavoro sociale”, creando opportunità per i giovani di andare a studiare le professioni sociali in Austria per poi essere competitivi sul mercato europeo dell'accudimento.
Proprio partendo da queste riflessioni è nata l'idea di girare un film che possa raggiungere la più ampia platea possibile, che possa narrare una vicenda rappresentativa per questo lembo di terra; impresa tutt’altro che facile, soprattutto per trovare i finanziamenti necessari. In primis ho deciso di scrivere in parallelo un romanzo sulla storia di Mikhail e di Bebe, romanzo uscito nel 2012 e che ha conseguito un bel successo. Nel mio studio di registrazione di Monaco ho iniziato a lavorare al mio copione e con l’aiuto di un giornalista del ZDF sono riuscito ad avere l’appoggio degli emittenti FFF Bayer, ÖFI, ORF e di studi televisivi locali minori e, pertanto, il budget necessario e il team multietnico giusto per iniziare le riprese.
Così, nell'estate del 2015 siamo partiti per la Romania e la Serbia, l'inizio di una sfiancate ma intensissima avventura. E la realtà ci ha raggiunti, talvolta superati. Inaspettatamente, proprio in quell'estate, la rotta balcanica é entrata nell'occhio del ciclone degli eventi. Giravamo e dietro di noi le frontiere si chiudevano. Ogni giorno i fatti di cronaca arricchivano e precedevano il mio lavoro di ripresa così che più volte mi sono dovuto fermare per capire se volevo girare un documentario, aderendo, in tal caso, in toto a quanto stava accadendo sotto i nostri occhi, oppure se volevo rimanere comunque fedele al mio copione, alla mia storia come metafora di tutte le storie di migrazione, cercando di attualizzarla laddove necessario...ed ho optato per questa seconda via. Col senno del poi sono contento di questa mia scelta. Credo che il mio film, che necessariamente raggiunge un pubblico diverso di quello che avrei raggiunto con un documentario, sia un’importante testimonianza di ciò che sta accadendo. Il premio del pubblico, con il quale sono stato insignito proprio al Film Festival di Bolzano, ne é la testimonianza.”
IL Futurismo venne fondato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti, con la pubblicazione sul giornale francese "Le Figaro" del primo Manifesto Futurista, celebrazione della realtà industriale, della vita nelle grandi città come simboli della modernità, dove capire ed esaltare la bellezza della velocità e della macchina, del movimento, dell'azione, del gesto violento per abolire i valori tradizionali del passato, la glorificazione del militarismo e della guerra in quanto "...sola igiene del mondo". Clicca sul testo in blu!
Siamo nel 1914 - 1915 e l'ambiente socio- politico italiano é in fermento. La Prima Guerra Mondiale é alle porte; l'Italia é divisa tra chi sostiene che sia necessario restarne fuori e chi brama un intervento militare a fianco dell'Intesa. Con i valori che promuovono, si intuisce che gli artisti del "Gruppo Futurista" facciano parte di questi ultimi, aderendo al "Battaglione lombardo volontari Ciclisti e Automobilisti". Partirono i primi di giugno del 1915 per Gallarate e poi per Peschiera del Garda, nelle retrovie del fronte trentino: a Marinetti, Bucci, Boccioni e Sant'Elia si unirono Mario Sironi, Achille Funi, Carlo Erba e Ugo Piatti. A luglio i volontari furono destinati al settore del fronte della zona di Ala e della Gardesana. Nei mesi a venire misero a segno alcune fortunate azioni che incisero sulla loro determinazione. Tuttavia a dicembre del 1915 il battaglione venne sciolto per motivi bellici e i Futuristi furono sparsi sui fronti di guerra più "impegnativi": Boccioni morirà cadendo da cavallo, Antonio Sant'Elia e Carlo Erba trovarono la morte sul monte Ortigara.
Nicoletta Boschiero, storica curatrice del MART nonché responsabile di Casa Depero dal 1990, ci parla del rapporto dei Futuristi con al guerra: "Siamo all'inizio del 900, all'alba di un nuovo secolo. Un gruppo di giovani artisti e intellettuali con a capo Filippo Tommaso Marinetti vuole rifare il mondo, abbattere il vecchio. Forti di slogan come “A morte i musei! A morte i Passatisti!”, loro, che si definiscono, per contro, i Futuristi, nel loro primo Manifesto del 1909 inneggiano alla guerra come sola igiene del mondo. E, quando nel 1914 il vecchio continente comincia ad armarsi, i Futuristi, nella loro visione astratta e concettuale delle cose percepiscono l'opportunità per fare tabula rasa del vecchiume, per ricominciare davvero. Non possono, pertanto, che essere favorevoli all'azione, che essere dalla parte degli interventisti nel dibattito pubblico che precede l'entrata in guerra dell'Italia; ma non solo. Sono interventisti e irredentisti. Fortunato Depero, come sappiamo trentino e, pertanto, all'epoca cittadino dell’impero austro-ungarico, cominciò a manifestare il suo pensiero irredentista nel 1912 quando grazie alla sua conoscenza con Mario Rizzoli - fiammazzo e appassionato irredentista, compagno di Cesare Battisti- venne da questo coinvolto nella creazione di un album fotografico che ritrae i boschi della val di Fiemme : costituto da 50 fotografie ornate da disegni, cariatidi e fregi di un giovanissimo Depero che risentono della tecnica appresa come scultore a Rovereto, quest’album venne poi donato al Touring Club Italiano, per affermare il ruolo della magnifica comunità di Fiemme come promulgatrice del rimboschimento d'Italia.
Depero conobbe Giacomo Balla nel 1914. Da irredentista della prim'ora si reca a Roma per frequentare il circolo della galleria Futurista di Giuseppe Sprovieri, dove ha modo di ampliare le sue conoscenze artistiche studiando i lavori di Boccioni e le opere di Balla, Severini, Russolo. Attraverso il suo particolare legame con Balla apprende un nuovo modo di dipingere, molto diverso da quello dei secessionisti viennesi, suo riferimento fino ad allora. Allo scoppio della guerra fugge da Trento e si trasferisce a Roma, dove nel 1915 firma assieme a Balla il Manifesto Ricostruzione Futurista dell’ universo. Questo manifesto segna il passaggio tra il primo e il secondo Futurismo: mentre tra il 1909 e il 1915 il Futurismo si identifica con un'attività molto decostruttiva, improntata sul distruggere il passato, dopo la morte di Boccioni le cose cambiano. I Futuristi si rendono conto che la guerra non é un'idea astratta attraverso la quale si cambia il mondo; la guerra sopprime e cancella anche tutto ciò che di buono c'era nel passato. Il manifesto di Balla e di Depero diventa così il manifesto del fare, del cambiare il mondo attraverso la creazione di oggetti espressione di una sensibilità artistica nuova, diversa rispetto a quella del passato, ma diversamente costruttiva: nascono così gli arazzi, i manifesti pubblicitari, le scenografie per i balli plastici, i giocattoli, in cui l'artista-artefice rappresenta la sua visione del mondo. Negli anni '20 Depero conosce il suo periodo di massimo riconoscimento che condivide con sua moglie e compagna di vita, Rosetta. La mostra internazionale di Parigi del '25 lo consacra al successo.
Fu, tuttavia, per la loro capacità di traslare queste dirompenti visioni nel mondo dell'arte, che i Futuristi sono giunti sino a noi. Torniamo da Fortunato Depero. Ci racconti del suo sodalizio con Davide Campari...
Nicoletta Boschiero: “la ditta Campari già lavorava con grandi illustratori come il triestino Marcello Dudovich, o ancora Leonetto Cappiello, il cartellonista francese Achille Luciano Mauzan, Gino Boccasile, fino a Bruno Munari, negli anni 6o.
Davide Campari finanzia il libro imbullonato, una pubblicazione senza precedenti realizzata nel 1927 da Depero e Fdele Azari. Depero inventa anche delle divertenti vignette a china in bianco e nero, dai tratti ancor'oggi moderni e attuali. Nel 1930 l’incontro tra Davide Campari e l’artista stimola la creatività di Fortunato Depero che inventa “Camparisoda”, bottiglia monodose: una rivoluzione nella produzione Campari, la storica, mai mutata forma a calice rovesciato dal colore rosso intenso del bitter Campari; un'idea semplice e vincente.
“Trauma Galizia”; Waltraud Tschurtschenthaler ci racconta di nonno Josef.
Sin dai primi giorni della mobilitazione nell'agosto del 1914 la maggior parte degli uomini del Tirolo e del Vorarlberg chiamati alle armi - ben 4 reggimenti di Kaiserjäger, 3 di Landesschützen, 2 del Landsturm, 1 divisione di Landesschützen a cavallo e 1 reggimento di artiglieria - furono inviati sul fronte orientale in Galizia. Questa terra, situata nella Polonia meridionale a sud-est di Cracovia aveva un'estensione di 78.000 km quadrati ed era stata assegnata all'Austria come "Kronland" con il Congresso di Vienna nel 1815.
Tra il 24 agosto e l’11 settembre, dopo una serie di sanguinosi scontri tra le truppe austro-ungariche e l’esercito russo, con la perdita della battaglia di Leopoli e a sua progressiva ritirata sui monti Carpazi si consumò la prima grande disfatta militare e morale degli ambiziosi piani di una facile vittoria degli austro-ungarici; la speranza di Conrad von Hötzendorff che l’incipiente inverno sarebbe stato favorevole alle truppe austriache, meglio equipaggiate di quelle russe, non si avverò: ai continui attacchi sferrati dai russi si aggiunsero freddo, neve e ghiaccio nonché la scarsità di generi alimentari, munizioni e armi pesanti. Le perdite furono ingenti. Nell'ottobre del 1914 le truppe austriache riuscirono a respingere i russi, ma quando il 22 marzo 1915 la fortezza di Przemysl - diventata simbolo di resistenza e di coraggio – infine cadde in mano ai russi, la dèbacle fu totale: 9 generali, 2.593 ufficiali e 117.000 soldati, di cui 1.600 appartenenti al reggimento del Landsturm tirolese, caddero prigionieri e furono portati in Siberia e in Turkestan. Nel maggio del 1915 gli austriaci, forti dell'appoggio del generale tedesco e del suo corpo d'armata misero in atto uno sfondamento sul fronte russo, ma senza che ciò comportasse la sconfitta definitiva della Russia e la sua ritirata dal fronte galiziano.
La storia ci tramanda fatti e numeri impietosi, azioni e controffensive da parte di ambo gli schieramenti; tuttavia nulla può eguagliare la forza comunicativa e la carica emozionale di una testimonianza diretta di chi nei Carpazi ha combattuto veramente, rischiando la propria vita in ogni momento: stiamo per raccontarvi la storia di Josef Tschurtschenthaler, nato a Sesto in val Pusteria il 17.12.1893; all'epoca del richiamo alla armi e del trasferimento sul fronte della Galizia era un "Kaiserjäger" di soli 21 anni. " Certo, allora a 21 anni si era già uomini e l'esperienza di anni di combattimenti sul fronte avrebbe comunque dato un taglio netto alla spensieratezza tipica degli anni giovanili...." ci racconta la nipote Waltraud, " basta vedere il suo autoritratto, fatto su un pezzo di carta vetrata lisa trovato chissà dove, per rendersi conto che quei giovani combattenti erano già uomini. Dovete sapere che mio nonno era uno scultore e intagliatore di legno e un pittore, insomma un artista. E, infatti, come ha elaborato i traumi vissuti sul fronte? Disegnando...la sera, in trincea: prendeva la matita, qualche colore, un pezzo di carta di fortuna e con tratto sicuro e grande maestria ritraeva quello che vedeva davanti ai suoi occhi, un compagno d'armi in branda, altri che approfittano di un momento di calma per concedersi una partitina a carte, due superiori che discutono davanti a dei documenti strategici. Ma il più delle volte ritraeva quello che i suoi occhi avevano visto sul campo di battaglia: un fienile in fiamme, un soldato russo dai tratti duri inferocito, un'altro che imbraccia il fucile per andare all'assalto con la paura della morte dipinta in faccia, un ferito che sta esalando l'anima, due opposti schieramenti in azione, i cavalli, le granate; tutto datato e siglato: da maggio 1915 ai primi mesi del 1916.”
“Ma il nonno fu fortunato, lui poté tornarsene a casa sulle proprie gambe alla fine del 1916...ma c'è mancato poco che non facesse morire dallo spavento mia bisnonna!! Sentite questa e provate ad immaginarvi la scena: sono mesi che il nonno non invia sue notizie, a casa si comincia a temere il peggio. E infatti alla bisnonna viene recapitato un pacchetto contenente i documenti del figlio e la medaglia al valore per le madri che hanno perso i propri figli in guerra. Immaginatevi il dolore dei famigliari, la bisnonna si veste di lutto e sprofonda nella tristezza...un bel giorno, bussano alla porta, la bisnonna va ad aprire e....entra suo figlio, nonno Josef vivo e vegeto! La bisnonna in un primo momento, invece di gioire, viene presa dal panico, urla, teme si tratti di un fantasma...in quegli anni si era superstiziosi....e invece era proprio il figlio dato per morto. Ecco cos'era successo: il nonno si trovava sul campo di battaglia, morti e feriti ovunque. Lui se la cava ma ha i pantaloni a brandello...i monti Carpazi sono freddi, meglio porre rimedio...vede un compagno morto ma con i pantaloni intatti. Non ci pensa due volte e in fretta e furia scambia i pantaloni, dimenticandosi di prendere i suoi documenti....”
Waltraud Tschurtschentahler è un fiume in piena; quando racconta del nonno le brillano gli occhi. Sfoglia la raccolta di dipinti che ha conservato e custodito con amorevole cura.
"Questo dipinto ha un significato particolare per la nostra famiglia...mi commuove sempre, é una storia che vi devo raccontare: era il 1918, il nonno era da poco tornato dalla guerra, Sesto era stata distrutta, il suo maso era stato dato alle fiamme, tutto doveva essere ricostruito...eppure una delle suoi primi pensieri fu quello di portarsi a casa le spoglie del suo amato fratello Veit Tschutschentahler che, dopo essere stato ferito all'addome in un'azione in Alta Pusteria, morì nel lazzaretto il 21 agosto 1915 per essere poi sepolto nel vicino cimitero di San Candido. Ma il nonno non poteva tollerare di saperlo lontano dal suo paese natale e dai suoi cari. Allora, poiché nonostante diversi tentativi l'autorizzazione all’estumulazione continuava a essergli negata, una notte entrò nel cimitero di San Candido con un piccone e un sacco nero e, all'insaputa di tutti, dissotterrò il fratello, se lo caricò sulla schiena e se lo portò per sette km attraverso il bosco fino a Sesto, dove gli dette degna sepoltura."
Sicuramente di racconti come quelli sulla vita di Josef Tschutschenthaler ce ne sono molti, ma fino a quando questi racconti vengono tramandati e ricordati con premura e dedizione come nel caso della signora Waltraud, queste storie rivivono all'infinito anche nel nostro presente.
Il conflitto israelo-palestinese fa talmente parte di uno scenario – ahimè – consueto, al quale noi lettori, noi fruitori di telegiornali, noi europei - che stiamo nella parte occidentale del Mediterraneo - siamo quasi assuefatti: una guerra senza fine dalle origini in parte avvolte dalle nebbie. Eppure parliamo di un conflitto in atto da oltre 80’anni, fatte salve alcune tregue e qualche tentativo di riappacificazione di scarsa tenuta temporale. Nel corso degli anni, poi, questo conflitto già così ingarbugliato, è stato dato in pasto alle ideologie di destra e di sinistra, è stato strumentalizzato per sostenere interessi/argomenti filo-americani o filo-russi: ognuno di noi, pacifisti compresi..., “tifa” più o meno latentemente per uno dei due “schieramenti” – manco ci trovassimo allo stadio- in relazione all'area politico-intellettuale con la quale si identifica. Per questo motivo, noi di Euregio scegliamo di limitare questo approfondimento ad alcuni aspetti storici forse meno noti e con l’aiuto di Flavio Lotti - organizzatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi nonché coordinatore nazionale della Tavola della Pace -vogliamo raccontarvi il conflitto concentrandoci su alcuni aspetti specifici e fornirvi un quadro di come stanno le cose oggi.
Lotti: Tra il 1916 e il 1917 in Gran Bretagna si formò l'idea che convenisse agli inglesi assegnare agli ebrei la possibilità di insediarsi con un proprio Stato nella terra di Palestina. In tal modo la Gran Bretagna si sarebbe garantita il sostegno degli ebrei nel corso dell'imminente guerra mondiale e, successivamente, avrebbe avuto degli alleati per consolidare le sue mire espansionistiche in quell’aera. Questa intenzione venne formalizzata nella “dichiarazione Balfour”del 1917; di fatto una lettera, scritta dall'allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, quale principale rappresentante della comunità ebraica inglese, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un "focolare ebraico" in Palestina, in vista della colonizzazione ebraica del suo territorio. Da quel momento in poi ebbe inizio una trasformazione che avrebbe travolto in maniera irreparabile quelle terre, ancor'oggi contese: prese avvio il processo di trasferimento degli ebrei, in primis dalla Russia, nella terra di Palestina. Il processo di insediamento, ulteriormente legittimato dall'assegnazione da parte delle Nazioni Unite del Mandato Britannico nel 1922, necessario, secondo la visione di allora, “per educare alla democrazia liberale le popolazioni del disciolto Impero Ottomano”, si sviluppò in maniera continuativa fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Non dobbiamo, infatti, dimenticarci, che in quegli anni stava sempre più prendendo piede l’ideologia della cd. "Scienza delle razze", seconda la quale certe razze e certi popoli, superiori per natura, avrebbero avuto il diritto di disporre su altri, classificati come inferiori. Con il passare degli anni gli inglesi che, come detto, ebbero una grande responsabilità nella genesi di questo nuovo Stato, si resero probabilmente conto che la situazione stava loro fuggendo dal controllo; cercarono, pertanto, di porre rimedio con - peraltro blandi - tentativi di arginare il processo in corso. Nel cd. "Libro Bianco" del 1939 presero ufficialmente atto delle difficoltà che il piano di insediamento stava riscontrando presso le popolazioni palestinesi, via via privati della propria terra e del la propria esistenza. Il tutto, come detto, senza particolare enfasi e determinazione.
Lotti: Già nell'800 gli ebrei sparsi nel mondo, dovendo subire le prime forme di persecuzione attuate dalla Russia, cominciarono a coltivare l'idea di raggrupparsi. L'ipotesi sionista di Herzl fu solo una delle diverse teorie che circolavano. Con una capacità tutta sua, quella di Herzl riuscì a prendere il sopravvento: la sua intuizione, esternata pubblicamente nel Congresso di Basilea del 1897, ebbe successo e si realizzò. Herzl, in quell'occasione, aveva previsto la realizzazione di uno Stato di Israele in 50'anni e lo Stato di Israele venne proclamato nel 1948! Per gli inglesi, negli anni attorno al 1917 alla ricerca dell’occasione per accaparrarsi la benevolenza degli ebrei nel conflitto che si stava delineando, il progetto perfetto per il raggiungimento del loro scopo..e lo fecero proprio con la dichiarazione di Balfour. E se in questa operazione la dichiarazione di Balfour costituì la base giuridica per la realizzazione della visione di Herzl, "L'agenzia Ebraica" ne costituì il braccio operativo: rappresentò infatti, con il bene placido degli inglesi e delle Nazioni Unite, sin dai suoi esordi nel 1929 e fino alla nascita ufficiale dello stato ebraico nel 1948, un governo ebraico parallelo a quello inglese, esercitando funzioni politiche tramite l’elezione di propri rappresentanti, funzioni amministrative gestendo l'acquisto di terreni- ceduti dai palestinesi-in maniera spesso inconsapevole- finanche militari, attraverso la formazione di proprie brigate armate operative.
Lotti: Nel momento in cui gli inglesi impedirono alle Nazioni Unite di assumere un governo di transizione per tutta la durata della messa in atto della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 181 del 1947, di fatto un piano di ripartizione della Palestina tra arabi e israeliani, lasciando, in tal modo, il territorio allo sbando, non fecero che portare a termine il disastro che già avevano compiuto: non solo la Risoluzione 181 venne rifiutata da buona parte della popolazione palestinese; la conseguenza immediata sarà l'avvio d'una guerra civile in Palestina, seguita dalla guerra arabo-israeliana del 1948. Si arriva così tra un crescendo di escalation alla "guerra dei 6 giorni" del 1967 - un conflitto combattuto tra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall'altra - che si tramutò in una rapida e totale vittoria israeliana e nell'occupazione di ulteriori fette di territorio da parte degli ebrei.
Lotti: Non é servita neanche un'ulteriore risoluzione delle Nazioni Unite, la 242, adottata all'indomani della guerra dei 6 giorni che, peraltro, pur ribadendo il concetto 2 popoli /2 stati della risoluzione 181 assegnava agli ebrei una fetta maggiore di territorio rispetto a quest'ultima, per trovare un'intesa: sino ad oggi la risoluzione non venne mai accettata dagli israeliani; dall'OLP palestinese sotto la guida di Arafat il principio "pace in cambio di territorio" – contenuto´nella risoluzione 242 -venne accettato solo nel 1988, invano.
Lotti: Dicevamo, appunto, due risoluzioni più o meno dello stesso tenore…invano. Perché la politica di espansione da parte di Israele – condotta in maniera più o meno incontrastata - non é mai cessata; anzi, si é accentuata attraverso la realizzazione di colonie nei territori palestinesi di Cisgiordania, Gerusalemme est e nella striscia di Gaza e la conseguente costruzione di muri. Oggi, di fatto, la messa in pratica della risoluzione 242 sarebbe materialmente impossibile, pena un trasferimento massiccio di popolazione ebraica ormai da molto tempo stabilmente insediata nei territori palestinesi. Questi ultimi si ritrovano a vivere in "enclave" tra loro isolate e i cui valichi di entrata e uscita si trovano sotto il controllo ebraico. In questo contesto, lo scoppio di nuove rivolte sanguinose é solo una questione di tempo. Oggi la Comunità Internazionale si trova a dover fare i conti con quello che é forse il più grande fallimento della storia moderna. Sarebbe forse ora che ne prendesse ufficialmente atto e che imponesse il riconoscimento e l'inviolabilità dei diritti umani dei palestinesi, palesemente lesi, compresa la salvaguardia del loro territorio. Uno Stato ebraico-palestinese riappacificato potrebbe inoltre rappresentare un punto saldo in uno scacchiere medio-orientale che si sta completamente ridefinendo.
Kurdistan- il Paese che non c’é. Cioè c’è, dal punto di vista geografico, si estende sugli altipiani settentrionali e nord-orientali della Mesopotamia e occupa parte dei territori della Turchia, della Siria, dell’Iraq e dell’Iran; ma non c’è come Stato indipendente. Stessa cosa dicasi per la lingua: esiste la lingua curda, appartenente al ceppo iranico della famiglia linguistica indoeuropea, ma i curdi vengono scolarizzati nella lingua del paese in cui hanno la cittadinanza: arabo, turco, russo, persiano…
Politicamente, il Kurdistan è diviso tra gli attuali Stati di Turchia, Iran, Iraq, Siria, e, in piccola parte, Armenia – a sud. Numericamente parlando, si stimano circa 40 milioni di curdi residenti in Kurdistan, di cui 15-20 milioni in Turchia, dove, peraltro, rappresentano la maggioranza della popolazione. Ciò nonostante, o, forse proprio per questo, diventa ormai difficile negare che la Turchia di Erdogan stia usando qualsiasi espediente per attaccarli: dietro all’appoggio del governo di Erdogan nel combattere l’ISIS ci stanno i cosiddetti “danni collaterali” che, guarda a caso, ricadono sui territori in cui vivono i curdi; ma non solo. Il fallito colpo di stato del luglio scorso ha acconsentito a mettere in atto una serie di azioni repressive nei confronti del Partito Democratico dei Popoli (HDP, un importante partito filo –curdo di sinistra) con l’accusa di “propaganda terroristica” e di legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK- che da anni rivendi l’autonomia curda), quest’ultimo classificato dal governo turco come gruppo terroristico. In generale, i rapporti tra governo Turco e Curdi sono diventati molto tesi dal 2015, quando è venuta a cadere la tregua che era in vigore dal 2013. Merita ancora spendere due parole sul fatto che, chi l’avrebbe mai detto?...nella regione geografica del Kurdistan si nasconde uno dei luoghi più ricchi di petrolio al mondo, forse il vero motivo per l’invasione americana in Iraq del 2003 in occasione della “terza guerra del Golfo”…
Storicamente, la questione territoriale curda risala a dopo la fine dell’Impero Ottomano, già ridimensionato drasticamente alla fine della Prima Guerra Mondiale e ancora di più dal Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920, il quale, tuttavia, garantiva ai Curdi la possibilità di ottenere l'indipendenza all'interno di uno Stato, i cui confini sarebbero stati definiti da una commissione della Società delle Nazioni designata ad hoc. Non si è mai pervenuti alla ratifica di tale trattato e il successivo “Padre dei Turchi”, Mustafa Kemal Pasha (Ataturk), costrinse le ex potenze alleate a sottoscrivere un nuovo trattato a Losanna nel 1923 che cancellava ogni concessione alle minoranze curde, armene e greche.
Oggi, di tutto questo territorio, solo il Kurdistan Iracheno vanta una certa autonomia politica dal 1991, come regione federale dell’Iraq - in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003 - con capoluogo Erbil. Il governo regionale del Kurdistan dispone anche di una propria forza armata, denominata “Guardie regionali curde”, meglio note con il nome di milizia Peshmerga.
A partire dal 2014 il Kurdistan iracheno ha subito attacchi e alcuni dei sui paesi sono stati nonché l’adiacente Siria Orientale sono diventati terra del Califfato Universale (ISIS), che ha proclamato Mosul come propria capitale. Il resto è storia quotidiana in costante divenire.
Proprio nel Kurdistan iracheno è ambientata la storia narrata da Mano Khalil, regista svizzero dalle origini curdo- siriane, nel suo recente film “The Swallow” – “Die Schwalbe”, già uscito nello scorso aprile (2016) e poi premiato come vincitore dalla giuria “Euregio-students” Noi di Euregio abbiamo il privilegio di scambiare due chiacchiere con il regista in occasione della presentazione ufficiale del film quale vincitore.
Euregio: “ The shallow- Die Schwalbe - La rondine”. Parliamo di un film intenso, coraggioso, denso, che non fa sconti a nessuno. (LINK trailer: https://www.youtube.com/watch?v=asLUkpOTGRA). Ci parli del rapporto tra curdi e iracheni prima e dopo la caduta di Saddam. “Serok dschahsch…”- le “squadre della morte”. Questa ferita sussiste ancor oggi?
Mano Khalil: “Ho cercato di girare un film politicamente corretto che lasci allo spettatore la responsabilità e il diritto di farsi una propria opinione. Credo non sia compito di un regista dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato….io racconto una storia nel modo più fedele possibile, poi lascio lo spettatore libero di pensare. Perché, sapete cosa vi dico? I miei spettatori sono dannatamente intelligenti, non hanno bisogno che io indichi loro la strada!” Ma torniamo al film. Una giovane ragazza svizzera, Mira, per caso trova nel sottotetto della sua casa natale a Berna delle lettere che narrano di una corrispondenza tra suo padre (curdo iracheno) e sua madre (svizzera), datate in un tempo recente, quando, stando a quanto la madre le aveva raccontato, suo padre doveva già essere morto, caduto da eroe per combattere le milizie di Saddam. Decide, pertanto, di partire su due piedi alla ricerca della verità, che per tanti anni le è stata negata. Arrivata nel Kurdistan, tuttavia, scopre una realtà inattesa e, in un primo momento, destabilizzante: suo papà è sì vivo ma, ben lontano dall’essere l’eroe dei suoi sogni, il paladino dei buoni che combatte i cattivi: è uno “serok dschahsch”, un traditore che si è fatto comprare dall’oro di Saddam per perseguitare, torturare e uccidere i suoi stessi confratelli curdi quando, a partire dall’anno 1980, anno in cui di Saddam - essendo buona parte delle sue armate impiegate nel sud dell’Iraq per combattere la guerra contro l’Iran - si è servito dell’”appoggio” delle “squadre della morte” composte da curdi venduti al suo soldo. “Questa situazione allucinante di epurazioni è andata avanti fino al 1991, anno dell’invasione del Kuwait e alla conseguente Guerra del Golfo del 1991, quando, in concomitanza con l’imposizione di una no-fly-zone sui territori curdi dell’Iraq per opera degli Americani, il Presidente del Kurdistan ha concesso un’amnistia ai traditori curdi per impedire lo scoppio di una guerra civile e li ha in pratica riabilitati. Oggi, proprio come nel film fa il papà di Mira, vivono beati e tranquilli tra di noi, con in tasca i soldi fatti perpetrando violenze contra la loro stessa gente….e questo non va bene. Le vittime non possono perdonare se gli artefici non chiedono perdono o se questi non sono sottoposti a una qualche altra forma di assunzione di responsabilità. Penso ad esempio a quanto è stato fatto da Mandela con l’istituto della"Commissione per la verità e la riconciliazione": un tribunale straordinario istituito in Sudafrica dopo la fine del regime dell'apartheid con lo scopo di raccogliere la testimonianza delle vittime e dei perpetratori dei crimini commessi da entrambe le parti durante il regime, richiedere e concedere (quando possibile) il perdono per azioni svolte durante l'apartheid, per superarla non solo per legge ma per riconciliare realmente vittime e carnefici, oppressori e oppressi. “
Euregio: Svizzera- Kurdistan. Possiamo dire che il film tratta anche il rapporto tra “tutti i nord” e “tutti i sud” del mondo? Bolzano-Palermo, piuttosto che Germania-Grecia, oppure Stati Uniti e Sudamerica…Due mondi con pregi e difetti che sembrano compensarsi, qualora vengano messi nelle condizioni di dialogare; cosa che, tuttavia, di questi tempi sembra tanto lontana.
Mano Khalil: “Concordo. Io oggi vivo in Svizzera, non avrei mai creduto; ma dopo che avevo provato a lavorare in Kurdistan sono dovuto fuggire. Ho interpretato questo fatto come un segno che mi stava a indicare che avrei dovuto trovare un mio nuovo ruolo: quello di costituire un ponte tra queste due culture, tra oriente e occidente, tra nord e sud del mondo. E, come regista, credo sia il mio compito fare conoscere gli uni agli altri, perché attraverso la conoscenza del diverso vengono meno la diffidenza e la paura e, talvolta, proprio come accade alla protagonista Mira nel film, il diverso può diventare fonte di arricchimento personale. Mira atterra e ha un primo scambio di battute con il taxista, con il quale cerca subito di contrattare sul prezzo, così come si fa con i “vucumprà” in spiaggia. Della risposta dell’autista: la felicità non si compra con i soldi…in un primo momento non se ne fa nulla…ma poi vede, cerca, capisce e…torna a Berna una donna diversa, più sicura di sé stessa, che sa quello che vuole dalla vita. La gioia è un sentimento, uno stato dell’anima, indipendentemente dai soldi!”
Euregio: “Il fine giustifica i mezzi”- una frase che la letteratura attribuisce a Machiavelli ne “Il Principe”. Per contro, nel Suo film noi abbiamo letto una condanna a tutte le violenze, da qualsiasi parte provengano, anche quando sembrino essere giustificate da nobili fini…
Mano Khalil: “Assolutamente sì. Credo che l’etica e il rispetto siano tutto; proprio quello che oggigiorno tanto manca. Penso alla politica che, oggi come allora, si prostra per qualche barile di petrolio, è disposta a rinnegare i propri valori, chiude gli occhi davanti alle evidenze…questo è per me inaccettabile. Se solo penso a certe cerimonie in pompa magna per l’arrivo in occidente di certi ditattori medi- orientali che mescolano religione e ideologia, notoriamente dei criminali e degli assassini, coloro che sotto gli occhi di tutti foraggiano l’ISIS! Un nome per tutti? Il Presidente Turco Erdogan. Fa bene l’Europa ad interrompere i negoziati della richiesta di adesione della Turchia, e farebbe ancora meglio a non farsi ricattare da lui per via dell’accordo in base al quale la Turchia in cambio di soldi…e molti…deve fermare i migranti. Peraltro, non ho ancora capito come Erdogan usi questi soldi versati dall’Unione Europea, poichè in loco si vede solo l’intervento, il lavoro, le strutture di UNCHR (Agenzia Onu per i Rifugiati, n.d.r).”
Da quando il 17 ottobre scorso è iniziata l’offensiva per cacciare l’ISIS da Mosul la priorità, tuttavia, è quella di salvare il maggior numero possibile di civili che fuggono, tra cui molte famiglie con bambini. Riportiamo sotto qualche passaggio tratto dal sito del TPI (The Post Internazionale)
Per il testo integrale clicca qui: http://www.tpi.it/mondo/iraq/ultimi-aggiornamenti-offensiva-mosul-isis
Nelle prime ore di lunedì 17 ottobre 2016 è cominciata l'offensiva per sottrarre Mosul, la seconda città più grande dell'Iraq, ai miliziani del sedicente Stato islamico che dal luglio del 2014 ne avevano fatto la propria capitale.
Alla massiccia campagna partecipano oltre 30mila uomini: le forze governative irachene, i peshmerga curdi, i volontari cristiani, le milizie paramilitari sciite e i combattenti delle tribù sunnite. Prendono parte anche le forze della coalizione internazionale anti-Isis guidata dagli Stati Uniti, fornendo assistenza e supporto.
28.11.2016
- Dopo sei settimane di offensiva, le forze irachene hanno ottenuto il controllo della metà dei quartieri orientali di Mosul. Ma le forze speciali stanno passando al setaccio i civili per verificare se tra di loro si nascondano dei miliziani. Centinaia di uomini hanno dovuto non solo mostrare i loro documenti di identità ma anche sollevare magliette e camicie per dimostrare di non indossare cinture esplosive. Nel frattempo, i vertici militari iracheni hanno reso noto di aver ucciso quasi mille jihadisti dall'inizio della campagna.
Migranti – confini - muri. Caduto quello di Berlino il 9 novembre 1989 - simbolo per eccellenza della fine della Guerra Fredda e, dunque, della contrapposizione ideologica tra il capitalismo e il comunismo - molti altri ne sono stati costruiti: per tentare di "chiudere fuori" e di “proteggere dentro”, di non dare accesso ad un'ideologia diversa o per impedire che popoli migranti alla ricerca di sperate migliori opportunità facciano perdere a chi il luogo già lo abita "la priorità acquisita".
Per meglio prepararci a quanto Gianluca Wallisch abbia da dirci, proponiamo due brevi riflessioni che riguardano due momenti molto diversi della storia: "9 agosto 378-il giorno dei Barbari" dal saggio dello storico Alessandro Barbero e “conflitti religiosi, migrazione e crescita”, considerazioni di Adriano Prosperi al Festival dell’Economia 2016 di Trento. Caliamoci, allora, in due realtà apparentemente lontane dal nostro tempo per acquisire uno spazio emotivo e di riflessione. Sarà cura e responsabilità del lettore trarre le proprie conclusioni.
Partiamo con la prima riflessione storica: Il 9 agosto 378 l’esercito dell’Imperatore Romano d’Oriente Valente venne letteralmente annientato dalle truppe dei Goti guidate da Fritigerno nella piana sotto Adrianopoli, provincia romana della Tracia. A partire da tale data inizia il lento ma inesorabile declino dell’Impero Romano d’Occidente e a partire da questa data l’immigrazione barbarica diventa violenta e ingovernabile. Tutto ciò accadde proprio nel momento in cui la politica di Roma, da una politica dei confini fluidi, di consapevole assimilazione dei popoli al di là del Reno e del Danubio ai benefici culturali ed economici derivanti dallo status di cittadino romano a fronte di comprovata lealtà dei popoli barbari verso le leggi e le istituzioni dell’impero e di accettazione di volontario reclutamento nelle sempre affamate file dell’esercito mutò in una politica di strenua difesa dei confini, di respingimento dei popoli che si accalcavano alle frontiere, di intolleranza verso il barbaro e di guerra ai profughi ribelli.
La seconda considerazione si basa sull’intervento dello storico e giornalista Adriano Prosperi al Festival dell’Economia di Trento: Oggi 60 milioni di persone si stanno muovendo di cui 20 milioni sono rifugiati politici. Le cause principali sono il fanatismo religioso, la povertà e l’instabilità politica. Nulla di sorprendentemente nuovo rispetto al passato: con la caduta di Granada ( i territori arabi di Al-Andalùs) nel 1492 e l’avvenuta reconqista da parte de Los Reyes Catòlicos Ferdinando e Isabella di Spagna, furono espulsi 200.000 ebrei e 3-400.000 mussulmani che hanno preso armi e bagagli, lasciato la loro terra su barconi di fortuna e cercato accoglienza altrove. Che trovarono solo con difficoltà, perché l’identità nazionale moderna che stava nascendo si basava su un concetto di uniformità religiosa ed etnica. Solo pochi sovrani illuminati hanno dato accoglienza a questi profughi, riuscendo poi peraltro a inserirli in maniera proficua per la loro realtà territoriale: il Sultano di Istanbul, il Doge di Venezia, il Granduca di Toscana che impiegò gli ebrei per costruire ed avviare i commerci del porto di Livorno.
Ma torniamo al qui e ora: Wallisch, che senso ha costruire muri nell’epoca della globalizzazione? Viviamo in un tempo dell’assurdità della politica europea, che da un lato proclama di voler mantenere confini solo verso il proprio esterno, abolendo quegli interni tra stati membri, mentre dall’altro agisce in senso opposto. Fino a quando questo concetto è stato applicato in periodi privi di grandi sconvolgimenti politici, tutto è filato abbastanza liscio; ora, invece, che le tensioni si fanno sentire a tutti i livelli, negli stati membri stanno acquistando un preoccupante peso le varie derive populiste e la logica del “difendersi a modo proprio”- sottintendendo nel modo in cui storicamente è sempre stato fatto, cioè costruendo un muro ai propri confini nazionali - spazzando via così i principi fondatori dell’Unione Europea per tornare ai vecchi concetti di prima del 1957, ossia della sottoscrizione dei Trattati di Roma, gli atti istitutivi dell’odierna Unione Europea. In questo contesto ritengo illuminante citare una frase di Walter Scheel, ex Presidente dell’allora BRD (Bundesrepublik Deutschland n.d.r.) morto di recente, che ha usato le seguenti parole – ora parafrasate dalla redazione - per delimitare il confine tra “politica di responsabilità” e “politica populista”: La vera politica è quella che si prende la responsabilità di fare le scelte giuste ed è poi in grado di rendere tali scelte popolari; i populismi fanno esattamente l’opposto. Fanno le scelte politiche in base alla pancia della gente.
Volgendo lo sguardo oltremare, possiamo tracciare un parallelismo con la politica del candidato del Partito Repubblicano alla Casa Bianca, Donald Trump? Certo, direi proprio di sì. Anche se in questo caso mi verrebbe da dire che Trump ha imparato la lezione dai populismi europei e non viceversa, seppur interpretandola poi all’americana. Cavalca l’onda di un elettorato di media anziano e sospettoso verso i giovani liberali che avanzano e viene premiato perché ha il coraggio di dire ciò che pensa e di sostenere una precisa posizione senza farsi scoraggiare: tra cui quella di costruire un vero e proprio muro di contenimento invalicabile al confine con il Messico…
Lasciamo il confine con il Messico per parlare del Brennero, che ci tocca tutti molto da vicino. Cosa è cambiato alla primavera scora e cosa cambierà? In sostanza è cambiato ben poco e posso affermare con moderata fiducia che ora come ora poco cambierà. L’Austria in quel frangente ha voluto esercitare pressione sull’Italia e sull’Unione Europea, affinché la prima – giusto o sbagliato che sia – fungesse maggiormente da cuscinetto. Il momento è, inoltre, coinciso con il rimpasto governativo di fine gennaio 2016 - nel corso del quale sono stati nominati il nuovo Ministro degli Interni Wolfgang Sobotka e il nuovo Ministro della Difesa Hans Peter Doskozil, ambedue della SPÖ (Sozialdemokratische Partei Österreichs n.d.r ) – che con questa dimostrazione di forza hanno voluto profilarsi e marcare la loro posizione anche nei confronti della politica della Cancelliera Angela Merkel. Il risultato è stata la chiusura della rotta balcanica con il noto effetto domino nei confronti di Italia e Grecia.
Parliamo ora della posizione dell’Italia e del recente vertice tra Renzi, Merkel e Hollande tenutosi a Ventotene. Sono anni che l’Italia denuncia in sede Europea l’impossibilità da parte delle nazioni che confinano con il Mediterraneo di sobbarcarsi da soli il crescente flusso dei migranti ed è sempre rimasta inascoltata. L’Europa, in buona sostanza, si è fino ad ora limitata a pochi proclami e a nessun vero aiuto. Non che Ventotene segni un cambiamento di rotta, ma quantomeno ha avuto il non trascurabile significato simbolico e mediatico di riporre l’Italia al centro dei grandi attori europei. Di fatto, il cambiamento sta avvenendo con grande lentezza e con troppi ostacoli costituiti degli interessi dei singoli stati membri che, ora come ora, tendono a prevalere rispetto ad un non meglio identificato interesse comune. Due, pertanto, i punti sui quali L’unione Europea è chiamata a sviluppare nuove modalità e un diverso orientamento ideologico: riuscire a superare – quantomeno parzialmente - il concetto generale del voto unanime, che di fatto consente a piccole realtà nazionali di bloccare grandi progetti di crescita comune e di sviluppare una nuova e condivisa identità comune. Sono personalmente convinto che, passato questo tempo di smarrimento e di difficoltà, l’Unione Europea sarà in grado di innovarsi. Perché “problemi nuovi non possono essere risolti con idee vecchie.”
Scarica qui la risoluzione sull’immigrazione firmata a Alpbach dai 3 Presidenti dell’Euregio il 21.08.2016 e consegnata al Presedente della Commissione UE Juncker.
Sudan e Sud Sudan: il nord musulmano e arabo, il sud culturalmente sub-sahariano, animista e cristiano: due paesi distinti obbligati alla convivenza dalle ex forze coloniali, in questo caso dal Regno Unito. Da qui l’origine del conflitto; ma anche dalla pretesa di volersi garantire la fetta maggiore possibile nel business del petrolio.
Ma andiamo per tappe. A partire dal 1867 il Regno dell’’Egitto e del Sudan venne governato da un Viceré ottomano con una forma di indipendenza assai simbolica, ma tuttavia poco conflittuale nei confronti delle altre potenze; situazione che mutò rapidamente quando nel 1879 l’Impero Britannico, interessato di fatto al controllo del canale di Suez e, attraverso quest’ultimo, al suo passaggio privilegiato verso l’India coloniale, invase ed occupò il Paese e ne mantenne ben salde nel tempo le redini. Nella sua veste di Alto Commissariato, Londra proclamò il Sudan condominio anglo-egiziano: un territorio parte integrante dell'Egitto ma sotto la sovranità congiunta con il Regno Unito. E tale rimase anche al termine della Prima Guerra Mondiale, nonostante insurrezioni sanguinose e tentativi indipendentistici. La svolta, in negativo, arrivò nel 1946, quando per logiche favorevoli agli imperi ex colonialisti, Nord e Sud del Sudan non vennero più governate come due nazioni distinte, ma riuniti sotto un'unica amministrazione. E, il peggio doveva ancora venire. Nel 1972 il Nord impose la Shari'a a tutto il Sudan e la nazione iniziò a sanguinare: venne proclamato lo stato di emergenza e vennero istituiti tribunali speciali per processare in massa i non-mussulmani.
La conseguenza fu una sfilza quasi ininterrotta di guerre civili fino a che, il 9 luglio 2011, a seguito di un referendum, nasce la Repubblica del Sud Sudan. Pace ripristinata? Macché: la principale materia del contendere ora si è spostata sul controllo delle risorse petrolifere, di cui il Sud Sudan é ricchissimo; ma gli impianti e la logistica di cui necessitano per raffinare e esportare l’oro nero sono situati a Nord. Si potrebbe pensare che almeno regni la pace all’interno del neonato Sud Sudan…e invece no: nel 2013 é nuovamente scoppiata una guerra civile, questa volta tra l'etnia Dinka, di cui fa parte il Presidente sud sudanese Sava Kiir, e l'etnia ribelle dei Nuer, a cui appartiene il Viceministro Riek Machar. Una guerra che ha costretto una persona su 5 a lasciare la propria abitazione, che ha provocato un esodo e un massacro senza fine. L'ONU denuncia campi profughi ormai allo stremo e stupri di massa da parte dell'esercito del Presidente, “autorizzati” – pare- come ricompensa per il loro impegno nella guerra contro i ribelli e, la confinante Etiopia, lamenta razzie, violenze e rapimenti di bambini compiuti da raid armati sudsudanesi delle zone di confine...
Riusciamo a raggiungere Raffaele Crocco, giornalista di Rai 3 regionale ma, soprattutto, ideatore e direttore del progetto “Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo” - frutto e sintesi dell’impegno di Crocco come inviato di guerra in Sud America, in Slovenia, Croazia, Kosovo, in Israele-Palestina - un assolatissimo pomeriggio in una Trento animata e fervente per i preparativi delle imminenti Feste Vigiliane. Il tempo di ordinare un’acqua minerale e Raffaele Crocco parte a raccontarci della situazione in Sudan con grande capacità di semplificare e sintetizzare una realtà che in sé è molto articolata e complessa.
Crocco: “ La vicenda del Sudan è il tipico esempio di come un pezzo di Africa sia stato mal governato dalle potenze europee, le quali, nel momento in cui se ne stavano già andando, hanno pensato bene di creare delle territorialità solo ed esclusivamente sulla base della loro visione eurocentrica e dei loro interessi diretti. Gli europei, infatti, hanno sempre visto questa grande fetta di Africa come un’appendice dell’Egitto e, in quanto tale, facente parte di quello stato che interessava loro in quanto detentore della maggiore risorsa idrica del Paese, del Nilo. Errore gravissimo, perché Il Sudan era allora come oggi un territorio di vastissime dimensioni che ospita al suo interno culture e tradizioni diverse e contrastanti, per la gestione delle quali non è ancora mai stato trovato – e forse neanche cercato e voluto…- un punto di equilibrio. Fino al 2011 le potenze europee hanno considerato questa vastissima area quasi esclusivamente come potenziale fornitore di petrolio (il Sud Sudan) e detentore della necessaria logistica ( a nord), senza vedere o, comunque, accettando e tollerando una pesantissima condizione di colonialismo interno e di sfruttamento indiscriminato del sud da parte del nord: una guerra civile durata quasi 20 anni che ha prodotto 2 milioni di morti e 6 milioni di profughi…Ma non è tutto. A queste cifre vanno aggiunti altri 120.000 sfollati e 124 villaggi bruciati solo nelle ultime 4 settimane per via del conflitto in corso nel Darfur (una delle provincia storiche del Sudan, situata nella parte sud-orientale del Paese, nel deserto del Sahara), dove è in atto un vero e proprio genocidio con violenze, stupri, bombardamenti e violazioni costanti dei diritti umani, iniziato contestualmente con la guerra di indipendenza del Sud Sudan, quando con gli accordi di pace del 2011 le richieste indipendentistiche del Darfur e di salvaguardia delle loro peculiari tradizioni sahariane sono state letteralmente ignorate”.
A questo punto riteniamo opportuno aprire una breve parentesi sulla drammatica situazione del Darfur. Il conflitto é nato sostanzialmente per la gestione squilibrata delle risorse idriche e alimentari di una minoranza di popolazione araba a discapito della maggioranza africana. La discriminazione a tutti i livelli verso gli "africani" ha portato all’insurrezione di diversi gruppi di ribelli. Fattore scatenante l’attacco da parte di questi ultimi della guarnigione governativa ad al-Fashir (ex capoluogo del Darfur) nell’aprile 2003. Dopo diversi tentativi da parte dei governativi di sconfiggere i ribelli, la svolta si determina con la decisione strategica di incaricare le ferocissime milizie Janjaweed, pastori nomadi armati, a cui il governo aveva già fatto ricorso con successo per reprimere precedenti rivolte interne.
Ben presto la situazione precipita: nella primavera del 2004 diverse migliaia di persone – prevalentemente non-arabi - vengono uccise e più di un milione cacciato dalle proprie case, causando una grave crisi umanitaria. Accordi internazionali e risoluzioni ONU rimangono disattese dal governo sudanese – forte anche dell’appoggio della Cina, il maggior fornitore di armi e tecnologie militari del Sudan - che nel frattempo continua a bombardare la popolazione civile del Darfur. Oggi sono poche le persone che superano il 35° anno di vita, ogni giorno muoiono in media 75 bambini. E ancora: 124 villaggi bruciati nel 2016, 120.000 sfollati solo nelle ultime 4 settimane. Siamo di fronte ad un massacro che ha raggiunto le dimensioni di genocidio. Intanto Karthoum (capitale del Sudan) continua a negare…
Crocco: "E poi ci sono i Nuba. Si tratta di un popolo nato da un insieme di diversi popoli che vive sui monti Nuba, in una regione a confine tra Sudan e Sud Sudan. Per secoli hanno dovuto difendersi dalla tratta degli schiavi. Hanno tradizioni loro proprie, tra le quali spicca quella della lotta corpo a corpo, occasione in cui sfoggiano straordinari dipinti corporali. Nella società sudanese vengono discriminati e considerati cittadini di seconda classe. A partire dagli anni 70 le loro pianure sono state occupate e saccheggiate da uomini d'affari legati al governo islamico che perseguita, arresta e uccide tutti coloro che si rifiutano di cedere la propria terra. Anche loro, come il popolo del Darfur, non sono stati minimamente presi in considerazione dal referendum del 2011.
Pertanto, riassumendo, l'area del Sudan oggi é martoriata dai seguenti conflitti:
1. Guerra strisciante e latente tra Sudan e Sud Sudan per il petrolio;
2. Stato di guerra civile nel Sud Sudan tra tribù Dinka e Neur con circa 600.000 profughi che si sono spostati verso il confine dell'Uganda con frequenti sconfinamenti;
3. Genocidio nel Darfur da parte del governo sudanese;
4. Massacri da parte dei governativi nei confronti dei Nuba.”
Morale della storia e auspicabile insegnamento da trarre: questa infinita scia di guerre civili è nata principalmente dal fatto che i popoli di quest’area geografica sono stati aggregati dalle autorità coloniali europee al termine della Prima Guerra Mondiale con un semplice tratto di matita tracciato senza riflettere sulle mappe, invece di essere lasciati liberi di strutturarsi volontariamente sulla base delle proprie appartenenze sociali, culturali e religiose.
Difficile avere le idee chiare su cosa stia succedendo in Siria; troppe le componenti in gioco: da una parte c’è il governo di Bashar al Assad che fino all’altro giorno avevamo imparato a considerare come “il dittatore da eliminare” e che oggi rischia di essere il “caposaldo del buonsenso” contro l’avanzata del Califfato dell’ISIS. Dall’altra ci sono i ribelli, per i quali buona parte di noi ha parteggiato durante l’assedio di Homs e che oggi non sappiamo più bene come considerare. Anche perché ai ribelli, nel corso della guerra siriana, si sono aggiunti gruppi estremisti non meglio qualificati, come i miliziani di Al Nursa, un ramo di Al Qaida. Poi c’è il sito di Palmira che ha colpito il nostro orgoglio di figli della cultura mediterranea senza-se-e-senza-ma, per il quale abbiamo penato, ora liberto proprio dai governativi…insomma, ripetiamo, è tutt’altro che chiaro. Per complicare ulteriormente il quadro di “chi sono i buoni”e di “chi sono i cattivi”, Assad ha dichiarato di rendersi disponibile – salvo ritrattare a più riprese -a governare con le opposizioni, ad ascoltare le voci di coloro che fino ad un attimo fa combatteva sul fronte interno di questa guerra civile che ormai dura da ben 4 anni, da quel 6 marzo del 2011, in cui un gruppo di ragazzi dai 13 ai 16 anni scrisse alcuni graffiti sul muro di una scuola a Dar’a (città a maggioranza sunnita nel sud della Siria) “Il popolo vuole rovesciare il regime”.
Prima di tutto ciò la comprensione era decisamente più semplice. Prima della Prima Guerra Mondiale tutto questo territorio faceva parte dell’impero Ottomano; già decimato, a dire il vero, e ridimensionato all’attuale Turchia, Palestina, Libano, Siria, Irak e parte dell'Arabia Saudita. Fu proprio nella speranza di riconquistare i territori perduti, che gli Ottomani si schierano accanto agli Imperi Centrali, diventando, pertanto, i grandi perdenti; infatti, gli accordi segreti anglo-francesi (Sykes-Picot) del 1916 non prevedevano affatto il ripristino di un vasto Stato arabo, ma, al contrario, una spartizione tra le nazioni europee vincitrici dell'impero turco: la Francia avrebbe annesso la Siria e il Libano, mentre all'Inghilterra sarebbero andati l'Iraq, la Giordania e la Palestina.
Noi dell’Euregio abbiamo il privilegio di farci spiegare quali siano i fattori primari che hanno portato alla situazione attuale in Siria e quali possibili scenari prossimi futuri si possano delineare con il giornalista del Corriere della Sera Guido Olimpio, per molti anni corrispondente dal Medio Oriente, oggi inviato negli Stati Uniti nonché autore di diversi saggi.
Olimpio: La crisi siriana e quella irachena -che vanno lette e interpretate assieme - si proiettano al passato, nel momento in cui, terminata la Prima Guerra Mondiale, tutta l'area mediorientale é stata spartita in maniera approssimativa dalle forze uscite vincitrici dal conflitto, accorpando tra loro entità differenti sia dal punto di vista religioso che sotto il profilo etnico. Queste diversità sono poi state tenute a bada medianti sistemi e strutture dittatoriali che operavano con metodi repressivi e facendo leva su rapporti di forza. Man mano che queste dittature sono saltate, é sotto gli occhi di tutti quello che é successo: ogni singola fazione ha iniziato a operare esclusivamente per il proprio interesse senza minimamente occuparsi del bene comune, spesso in coordinamento con attori esterni che li hanno finanziati. Poi é entrata in scena l'Isis che ha scompigliato tutte le carte, in peggio.
Euregio: Ecco, ci parli del fenomeno Isis-Daesh-Stato Islamico…
Olimpio: Ora, rappresentare lo Stato Islamico esclusivamente come il prodotto di una manovra politica diretta dall’esterno è un approccio superficiale: il movimento raccoglie, infatti, il malessere e le tensioni di una parte della popolazione (sunnita) di quell'area, ma non solo. Lo Stato Islamico é stato, infatti, capace di intercettare anche il disagio/rabbia di giovani musulmani nati e cresciuti nelle società occidentali. Al tempo stesso ha trasformato dei criminali comuni in soldati della Jihad: lo abbiamo visto con gli attentati di Parigi e Bruxelles. E questo è fondamentale per capire come affrontarlo.
Euregio: Come descriverebbe la situazione attuale?
Olimpio: Il quadro è più che mai complesso, e bisogna evitare gli schemi. In Medio Oriente nulla é bianco o nero; il colore prevalente in tutte le situazioni é il grigio. É una realtà sfumata. Gli attori in loco sono formati da comunità molto frammentate tra loro, ognuna delle quali porta avanti istanze diverse. Mi riferisco all'universo dei Sunniti e degli Sciiti, ma anche dei Curdi. Per questo motivo diversi esponenti della Comunità Internazionale stanno ragionando a una possibile spartizione dell'Iraq con conseguenze dirette anche sulla Siria con il rischio concreto di ripetere gli errori del passato che, come abbiamo visto, sono soluzioni che non funzionano nel medio- lungo termine. Poi ci sono le potenze occidentali che si sono sempre comportati come dei partner part-time che hanno agito esclusivamente per motivi di sicurezza e per ragioni economiche, per il petrolio in particolare. Assad oggi? Altrettanto sfumata é la posizione che i regimi dei vari Assad, Al Sisi, ma anche Ghedaffi, hanno tenuto in questi anni. É risaputo che dopo la deprecabile invasione americana dell'Iraq nel 2003, il raìs siriano ha favorito il flusso di quei jihadisti che oggi combatte. A Damasco faceva comodo che sparassero sugli USA. Quanto ai paesi occidentali hanno mutato posizione: prima chiedevano la partenza immediata del dittatore ora sono disposti a concedere tempo per paura del vuoto e dell’avanzata dello Stato Islamico. Putin, a sua volta, appoggia il regime per motivi strategici. Sono tutte risposte parziali. L'Isis é anche il sintomo di una malattia, non la malattia stessa. Contrastarla senza eliminare la malattia, mi riferisco al malessere e alle tensioni di cui si alimenta, gioverebbe a ben poco.
Euregio: quali possibili via d’uscita, semmai…, intravvede?
Olimpio: Volendo anche far tesoro degli errori del passato, la cosa migliore sarebbe fare sì che tutte le diverse parti in causa che insistono sul territorio fossero messe o si mettessero in relazione tra di loro; cosa, tuttavia, ora come ora alquanto improbabile...l'esperienza ci insegna che le vittime dei fronti avversari di una guerra recente o ancora in atto non sono in grado di darsi la mano. Tuttavia credo che nel medio termine questa sia l'unica strada che possa essere percorsa: quando i diversi e tra loro contrapposti attori locali non avranno più niente da guadagnare da questa guerra, forse ci potranno essere i presupposti per sedersi attorno ad un tavolo e ipotizzare soluzioni condivise. Diversamente, fino a quando gli attori locali avranno la convinzione di poter piegare con la forza il nemico, la guerra continuerà. In questo processo, a mio avviso, le potenze occidentali devono starsene al margine. Sia per non ripetere l'errore di impostare da fuori un nuovo assetto come è stato fatto a termine della Prima Guerra Mondiale, sia per impedire che una presenza invasiva in loco si possa poi trasformare in un alibi per i governi locali che consenta loro di giustificare un eventuale insuccesso di un possibile futuro processo evolutivo o l'incapacità di decidere per il proprio bene.
Il seme per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale
Li chiamiamo da sempre semplicemente „Balcani“, nonostante di semplice non ci sia proprio niente: a partire da nome, che, come ci viene segnalato da Edvard Cucek su www.atlanteguerre.it è improprio, un falso storico derivante da una catena montuosa che si trova a nord della Bulgaria; ma questo è il problema minore. I problemi veri sono e sono sempre stati quelli etnici, religiosi, geografici. Etnici, perché sin dal mondo antico questo tratto di terra fu crocevia di migrazioni di popoli; religiosi perché questo lembo di terra è sempre stato anche territorio di conquista per cristiani e mussulmani, e, infine, geografici, perché diverse furono le etnie che hanno combattuto per conquistarsi una parte del limitato ma prezioso accesso al mare. Teatro di due guerre balcaniche nel 1912 e nel 1913: la Serbia cercava di sfuggire alla dipendenza economica austriaca, accaparrandosi uno sbocco verso il mar Egeo a danno dell’Albania. Cosa che non piacque agli austriaci che inviarono a Belgrado un ultimatum di evacuazione dell’Albania il 18 ottobre 1913. In quell’occasione la Serbia chinò la testa, ma il seme per il successivo attentato di Sarajevo e con esso lo scoppio della Prima Guerra Mondiale era stato inesorabilmente gettato.
Dopo Tito i nazionalismi riesplodono
Oggi i Balcani comprendono, procedendo da sud, parte della Turchia, della Bulgaria, della Romania, della Grecia, dell’Albania e dell’ex Jugoslavia suddivisa in Serbia, Macedonia, Montenegro, Bosnia, Croazia, Slovenia e, a est, parte dell’Ungheria. Dopo la morte del maresciallo Tito nel 1980, che con la sua politica era comunque riuscito a raggiungere e tenere l’unità nazionale benché tramite un forte governo centralizzato, riesplosero i nazionalismi che portarono alle sanguinose guerre del 1988-1989: il serbo Milosevic diede avvio ad un sanguinoso e cruente periodo bellico, che rimase incomprensibile per molti anni agli occhi degli occidentali. Rivolgiamo ora il nostro sguardo alla Bosnia- Erzegovina per raccontarvi di un tentativo di sedare i nazionalismi e di riconciliare le ferite attraverso lo strumento della rielaborazione congiunta dei fatti accaduti e dell’importanza della storia della memoria in processi di riconciliazione post bellica. Lasciamo al lettore farsi una propria opinione sulla situazione odierna anche alla luce degli approfondimenti proposti.
L’importanza della ricostruzione della memoria
Nel 2005 la Fondazione Museo Storico Trentino fu inviata a portare a Prijedor, una città situata nella parte settentrionale della Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina, la sua esperienza di Museo Storico di una terra di confine e sedere al tavolo di lavoro degli esponenti delle diverse etnie, impegnati a elaborare una storia comune da narrare nel vicino Museo Storico del monte Kozara. Alessandro De Bertolini ha fatto parte del gruppo di lavoro e ci racconta la sua esperienza: “Tutti i portavoce seduti al tavolo concordavano sul fatto che nei momenti di riconciliazione nazionale post bellica il presupposto per poter ripartire sia quello di una rielaborazione condivisa di ciò che era accaduto” – ci spiega De Bertolini. Oggi tutti gli storici concordano sul fatto che l’oblio non è un’ alternativa possibile; il problema rimane tuttavia di capire quale storia si voglia raccontare e di come farlo. “Prima del 2005 il Museo del Monte Kozara - luogo simbolo di battaglie che si sono svolte durante la guerra civile Jugoslava del 1991-1995 che provocò la morte di oltre 3.000 vittime civili nonché deportazioni nel vicino campo di concentramento, ma anche, prima. di una sanguinosa resistenza partigiana Titina durante la Seconda Guerra Mondiale contro l’invasore germanico - ospitava la storia del nazionalismo Serbo. Continua De Bertolini: “Seduti al tavolo con le diverse etnie, in diversi serrati confronti sul modo di procedere, siamo riusciti a stilare un protocollo condiviso in merito ai presupposti, i risultati attesi e alle procedura concrete da seguire. Come abbiamo detto, è essenziale mettersi d’accordo anche in che modo si vuole raccontare la storia, accordandosi su quale tipologia di fonte ci si voglia basare: non solo sulla documentazione storica ufficiale ma anche sulle testimonianze orali recuperando le voci di coloro che hanno vissuto quegli episodi. È stata scelta questa seconda via. Gli operatori della Fondazione Museo Storico Trentino si sono pertanto messi a disposizione per formare un gruppo di raccoglitori volontari della memoria locale. Il tentativo, per quanto possibile, è stato quello di recuperare la storia nella sua complessità. Operazione non facile, dato il breve tempo trascorso dalla fine del conflitto”.
Le difficoltà di oggi
Cosa ne è uscito? Forse poco, forse tanto. Sicuramente il lavoro è stato reso più difficile dal fatto che i ricordi erano ancora troppo vivi; quindi fu quasi impossibile riuscire a trovare delle storie che fossero in grado di tracciare ponti tra le diverse angolature nazionaliste. Forse in quel momento la rielaborazione è stata precoce, la gente non era ancora pronta. Se poi si guarda alla situazione odierna, a distanza di un’ulteriore decina di anni, la situazione non è cambiata di molto; anzi. La Repubblica federata della Bosnia- Erzegovina con capitale Sarajevo è nata con l’accordo di Pace di Dayton del 1995 – sostanzialmente imposta dai Governi esterni - e ne ha suddiviso il territorio in tre entità: l’entità Bosgnacca, l’entità Serbo- Ortodossa e l’entità Croato-Cattolica. La Costituzione prevede che ogni organo politico debba rappresentare contemporaneamente tutte e tre le etnie, creando di fatti una triplicazione degli organi rappresentativi. In questo contesto di spiccata tripartizione etnica e di strumentalizzazione del passato a seconda delle diverse “esigenze politiche”, è facilmente comprensibile come ancor’oggi le condizioni per la rielaborazione della storia condivisa siano pressoché assenti.
Per approfondimenti proponiamo “La falsificazione del Kozara” di Srdan Puhalo e “Esad Midžić, eroe partigiano. Un caso di memoria rimossa.”