Comprendere

La Prima Guerra sulle Dolomiti. Fra rocce e ghiacciai. Considerazioni sul coinvolgimento delle valli ladine.

Contributo di Luciana Palla - IT

Maggio 1915: l'Italia entra in guerra

 

Alla fine del maggio 1915 entrava in guerra anche l'Italia, dopo aver aderito al patto di Londra firmato il 26 aprile e disdetto l'alleanza con gli imperi centrali: con tale patto segreto l'Italia si era impegnata a combattere a fianco dell'Intesa e, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, il Tirolo Meridionale, Trieste, l'Istria, la Dalmazia esclusa la città di Fiume, e la base di Valona in Albania.

Si apriva così per l'Austria un nuovo fronte a Sud-Ovest dal passo Stelvio al confine carinziano, proprio nel momento in cui quasi tutte le sue truppe erano impegnate a Est, a contrastare l'avanzata russa. La consueta sfiducia nutrita verso l'Italia trovava in questo atto la sua prova più evidente: la guerra veniva ora ad assumere un nuovo significato, di guerra giusta contro il traditore che attaccava uno stato sino a quel momento alleato e così provato sugli altri fronti.

 

 

Gli Standschützen a difesa della loro terra

 

Molto difficile fu per l'Austria l'organizzazione militare del nuovo fronte, perché le truppe disponibili erano tutte impiegate contro la Russia. L'ultima risorsa erano gli Standschützen: si trattava di gruppi di antica tradizione nel Tirolo e Vorarlberg, ma senza alcun addestramento militare. Dato che nell'esercito regolare erano ormai stati richiamati gli uomini dai 18 ai 50 anni, rimanevano disponibili in tali compagnie solo ragazzi ed anziani, i quali, alcuni giorni prima della dichiarazione di guerra dell'Italia, furono vestiti ed equipaggiati militarmente, raggruppati in battaglioni e dislocati sui confini minacciati del Tirolo. Gli scizeri della Val Badia, inquadrati insieme a fodomi ed ampezzani nelle compagnie 2°, 3° e 4° del battaglione Enneberg, sotto il comando del maggiore Franz Kostner di Corvara, vennero dislocati sul fronte dal passo Pordoi a Travenanzes, fino all'arrivo, qualche tempo dopo del Deutsches Alpenkorps in loro aiuto. Nella difesa del settore Fiemme, fino al passo Pordoi, operavano invece, accanto al battaglione Cavalese, le compagnie di Ora, Castelrotto, Gardena, insieme a quelle del Tirolo del Nord e Vorarlberg.

  

  

Dal Diario di Vinzenz Moroder, Standschütze di Ortisei: "Prima della partenza per Doss [20 maggio 1915] il nostro amato ed energico maggiore J.N. Demetz tenne un solenne discorso a tutto il battaglione. Il nostro morale si fece allora più serio. [...] Bella fu la dipartita al 20 maggio da Doss fino a Plan. Il maggiore era davanti, maestoso, su un cavallo bianco, seguivano i tre caporali e tutto il battaglione. Lungo il cammino si cantava. Al 22 venne ordinato a tutti di andare a confessarsi, ed allora capimmo meglio il nostro futuro. Al mattino della domenica di Pentecoste tutti fecero la comunione. In chiesa cantammo Das ist der Tag des Herrn e anche il Kaiserlied: tutti eravamo molto commossi. [...] Era commovente vedere lì, durante la messa, questi Standschützen di Castelrotto, qualcuno con la barba grigia, per lo più emaciati. Io pensai fra me, Dio deve dare una ricompensa a questi volontari tirolesi. Patria, casa, maso e famiglia hanno essi dovuto lasciare nel bel mese di maggio per andare contro l'alleato infedele. Sì, ben pochi saranno stati lì veramente abili, ma Dio sarà dalla parte del giusto, se noi abbiamo fiducia in lui e lo preghiamo". (Vinzenz Moroder, Tagebuch vom ersten Weltkrieg, Ortisei, 1995: pp. 9, 10, 16).

  

  

Il fronte corre sulle cime

 

Il confine militare austriaco sulle Dolomiti collegava ad anfiteatro le cime delle montagne: si estendeva dal Lagorai ai Monzoni, dalla Marmolada al Padon al Col di Lana, dal Lagazuoi alle Tofane. Vennero abbandonati dagli austriaci perché posti a sud di questa linea di difesa i comuni di Ampezzo e Colle Santa Lucia, che furono subito occupati dagli italiani.

Dato che l'esiguità delle truppe austriache avrebbe difficilmente impedito uno sfondamento del fronte tirolese da parte italiana, che avrebbe avuto come conseguenza un'invasione della Baviera, la Germania creò il Deutsches Alpenkorps, un corpo militare della consistenza di una divisione (poco più di 20.000 soldati) e lo inviò sul fronte tirolese, in particolare nei settori Val di Fiemme e Val Pusteria, cioè nella zona dolomitica, dove la pressione italiana era più forte. Il Deutsches Alpenkorps aveva la funzione difensiva di respingere i primi attacchi da sud, mentre non poteva penetrare in territorio italiano perché la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania si avrà solo il 26 agosto 1916. Tale corpo rimase sul fronte dolomitico sino all'autunno 1915.

 

 

Colle S. Lucia, Ampezzo e Livinallongo

 

Sino al maggio 1915 questi tre comuni ebbero la stessa sorte delle altre valli ladine del Sella (Badia, Gardena, Fassa): gli uomini combattevano sul fronte orientale nell'esercito austroungarico dall'agosto 1914, le popolazioni si mantenevano pressoché totalmente fedeli all'Austria, l'irredentismo era quasi ovunque inesistente. Con l'aprirsi del nuovo fronte con l'Italia, la tradizionale unità della Ladinia venne meno: Cortina e Colle S. Lucia furono abbandonate dagli austriaci che portarono il fronte sulle cime delle montagne, lasciando in mano al nemico le conche e le valli a sud della cerchia dolomitica perché non facilmente difendibili. Cominciava così l'occupazione italiana dei due comuni, vissuta con paura e ostilità dagli abitanti, nonostante l'azione propagandistica condotta con ogni mezzo da parte delle nuove autorità.

Livinallongo invece venne tagliato trasversalmente in due dal fronte, divenne zona di combattimenti sino al novembre 1917, quando ci fu la ritirata di Caporetto e il ritorno degli austriaci.

 

 

L'esodo della popolazione

 

Il comune di Livinallongo venne evacuato in parte già dagli austriaci poco prima della dichiarazione di guerra dell'Italia: le popolazioni delle frazioni a nord-ovest del comune furono condotte lungo la strada della Val Badia, con i loro carri trainati dal bestiame, con le poche suppellettili che erano riusciti a portare con sé nella fuga improvvisa. Alcuni profughi poterono fermarsi in Val Badia e in Pusteria, in case vuote o presso parenti; chi invece non aveva alcuna possibilità di mantenersi fu condotto in Boemia, nelle città di Gablonz (oggi Jablonec nad Nisou) e Reichenberg (l'odierna Liberec), insieme a sfollati di altre nazionalità. Gli abitanti delle frazioni a sud-est di Livinallongo furono invece allontanati dagli italiani ai primi di luglio 1915, quando cominciavano a tentare la conquista del Col di Lana, e vennero condotti in varie regioni italiane (Abruzzi, Piemonte, Toscana). La popolazione subì quindi un'ulteriore dolorosa scissione interna, oltre ai disagi che il profugato in se stesso comportava: le famiglie si ritroveranno di nuovo dopo quattro anni.

Anche i fodomi subirono quindi la sorte di tanti altri profughi trentini, veneti, galiziani, ruteni, ecc., che dovettero abbandonare la loro terra. Una caratteristica di questa guerra fu, infatti, l'evacuazione forzata di intere regioni, che causò una vera e propria decimazione della popolazione civile.

 

 

La distruzione del territorio

 

Enorme fu alla fine del conflitto il lavoro per il recupero e la bonifica del territorio, per la rimessa in opera delle culture, per la ricostruzione delle case. Delle 356 abitazioni esistenti nel comune nel 1915, solo 55 erano ancora recuperabili. I paesi erano un cumulo di macerie: il villaggio di Corte era stato distrutto dagli austriaci ancor prima della dichiarazione di guerra dell'Italia a causa della vicinanza all'omonimo forte, Pieve fu bombardata il 18 giugno quando già era occupata dagli italiani, i quali risposero causando l'incendio di Arabba due giorni dopo.

Spesso le distruzioni avvennero sotto lo sguardo della popolazione nel mentre essa veniva evacuata: nel caso dell'incendio di Pieve ci furono anche alcune vittime fra gli ultimi civili che stavano fuggendo in direzione di Salesei, sotto la scorta dei soldati italiani e inseguiti dalle cannonate degli austriaci.

 

 

La guerra sotterranea

 

Fra la Tofana e il Pasubio furono fatte scoppiare durante la prima guerra 33 mine sotterranee, 5 delle quali nel massiccio montuoso del Col di Lana e del Sief. Con i mezzi tradizionali dell'attacco di fanteria gli italiani non riuscivano infatti a scacciare il nemico da posizioni naturali così privilegiate come le creste dolomitiche, per cui si ricorse alla guerra sotterranea: nella notte del 17 aprile 1916 fu fatta saltare la cima del Col di Lana, il 16 luglio dello stesso anno il Castelletto, sempre per azione italiana, mentre da parte austriaca furono fatte brillare parecchie mine sul Lagazuoi per scacciare il nemico abbarbicato sulla Cengia Martini. Gli italiani si accorsero ben presto che la conquista del Col di Lana era servita a poco, in quanto la via verso Nord rimaneva preclusa se non si riusciva ad arrivare anche al Sief, e fu proprio intorno a questo monte che dall'estate 1916 i due contendenti concentrarono i loro sforzi, l'uno per avanzare, l'altro per difendersi. Gli assalti sulla Sella del Sief (Siefsattel) e contro il Col di Roda rimasero un'impresa inutile, allora si riprese la guerra di scavo sotterranea. Furono fatte scoppiare due mine italiane, l'ultima delle quali il 27 settembre 1917, ma con pochi risultati. Gli austriaci invece, con una carica di kg 45.000 di esplosivo, il 21 ottobre 1917 sventarono la cresta fra il Sief e il Col di Lana causando un cratere che ancor oggi rimane il più grande nella guerra delle mine. Un mese dopo il fronte si spostava sul Grappa e sul Piave.

 

 

 

 

Dopo la ritirata di Caporetto

 

Dopo la ritirata di Caporetto, nel novembre 1917, il fronte delle Dolomiti si spostò a sud, sul massiccio del Grappa e sul Piave. Come immediato effetto ne conseguì l'invasione austro-tedesca del Bellunese, del Veneto e del Friuli, che divennero zona di occupazione e di sfruttamento: tutte le risorse locali furono utilizzate per nutrire gli eserciti, e per la popolazione cominciò il terribile anno della fame.

I comuni di Cortina e Colle Santa Lucia vissero invece con gioia, insieme al ritorno dei propri concittadini richiamati nell'esercito austroungarico con i quali avevano perso i contatti dal maggio 1915, il ripristino dell'amministrazione austriaca preceduta dalla fuga degli italiani e di quanti avevano accettato di collaborare con loro. A Livinallongo nella primavera 1918 cominciò il rimpatrio degli uomini abili al lavoro per iniziare una faticosa opera di ricostruzione e di coltivazione delle campagne ed i profughi della Boemia a poco a poco vennero fatti affluire nelle valli tirolesi e ladine, in attesa del rientro definitivo nei loro paesi.

 

 

Colle S. Lucia e Ampezzo: ritornano gli austriaci

 

Fuggono i militari, e con essi fuggono anche amministratori, maestri e curatori d'anime insediati dagli italiani, insieme a tutti coloro che, essendosi in qualche modo prestati a collaborare con il nemico, ora temono le ritorsioni austriache. Fra costoro ci sono anche 15 ex combattenti ampezzani che, fatti prigionieri sul fronte russo, avevano optato per l'Italia, e quindi erano potuti rientrare in paese dopo aver rinnegato la loro cittadinanza austriaca.

Le vecchie autorità, accolte con giubilo dalla popolazione, si dichiarano comunque soddisfatte del comportamento complessivo tenuto da questi loro sudditi durante l'occupazione italiana. Il difficile sarà però mantenere intatto questo "innato amore per il Kaiser e per la patria" e non deludere le popolazioni riconquistate. A tale scopo si programmano le opere più urgenti da affrontare: l'introduzione di un efficace sistema di alimentazione, l'assegnazione dei sussidi militari, il rilevamento dei danni di guerra, la ripresa della scuola, ecc. Ma mancano i mezzi non solo per attuare opere pubbliche, bensì anche per provvedere al sostentamento alimentare: fame, carestia, requisizioni colpiscono pure le popolazioni di Ampezzo e Colle S. Lucia, ed anche per loro questo sarà il periodo più duro della guerra.

 

 

A Livinallongo/Fodom inizia la ricostruzione

 

Nella primavera-estate 1918 cominciò il rimpatrio degli uomini validi al lavoro per iniziare almeno a dissodare le campagne. Fu questo per loro il periodo più duro di tutto il conflitto, perché rimasero sino alla fine della guerra abbandonati a se stessi, in mezzo alla rovina dei loro paesi, pressoché senza alcun aiuto da parte delle autorità austriache, le quali non erano più in grado di rifornire la valle dei generi necessari perché l'impero ormai aveva esaurito ogni sua risorsa.

Nel luglio 1918 erano già rimpatriati a Livinallongo 600 profughi: era stato attivato un servizio di posta con Corvara, un ufficio per la ricostruzione delle case e uno per la ripresa dell'agricoltura, ma mancavano completamente i mezzi per qualunque iniziativa e per sfamare la popolazione rimpatriata. La fine della guerra sarà un sollievo per molti, perché con gli italiani arriverà anche il cibo necessario per sopravvivere.

 

La guerra è finita

 

Le valli ladine dolomitiche, insieme al Trentino e all'Alto Adige, passarono definitivamente all'Italia con il trattato di St. Germain, firmato il 10 settembre 1919. Questa fu la conclusione della guerra sul piano politico, ma sul piano dei sentimenti e delle idee non fu così semplice mutare da un giorno all'altro stato d'appartenenza, sistema amministrativo, socio-economico e culturale. Fu un trauma, una cesura violenta col passato, una fonte di risentimenti, di nostalgia e di rimpianti, di tentativi di cambiare le regole stabilite dai trattati e contemporaneamente di salvaguardare l'identità della propria comunità che si sentiva minacciata da quell'annessione non desiderata.

La guerra 1914-18 assurse perciò a mito nel ricordo popolare ladino, come estrema ed inutile difesa contro l'invasore proveniente da Sud. Ma se la figura del combattente ladino-tirolese emerge spesso idealizzata nelle memorie postume, è ancora altrettanto vivo il ricordo dell'inutile sofferenza patita: esodo di profughi, internamenti, accuse e sospetti, fame e stenti accomunano le popolazioni ladine agli altri popoli europei coinvolti nel conflitto.

 

 

La memoria di quella guerra

 

La memoria della prima guerra è molto sfaccettata e complessa. Da un lato c'è l'esigenza da parte degli stati di rendere il ricordo accettabile di dare una giustificazione al massacro ordinato e compiuto: ecco allora il mito del soldato valoroso che ha combattuto ed è morto per la patria; ecco allora i monumenti ai caduti che ne esaltano l'eroismo e ne propiziano la resurrezione. Alla prosopopea del monumento fanno da contrasto i mille piccoli cimiteri disseminati qua e là, in ogni dove, durante la guerra: ovunque semplici croci, con un nome.

Dall'altro lato c'è la memoria più intima del soldato, in sé inenarrabile, incomunicabile, talmente altra che non era possibile trasmetterla a chi la guerra non l'aveva vissuta. Ma il reduce infine rompe il silenzio, anche se il ricordo raccontato non può coincidere con l'esperienza vissuta: ed ecco i diari, le testimonianze, che possono essere intesi come tentativo di esorcizzare quell'esperienza indicibile, di liberarsi finalmente da essa esternandola e chiamando gli altri a parteciparvi.

 

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